Sarà anche perché sto crescendo e, ad una certa età, magari giovane ma non più giovanissima, riemergono ricordi d’infanzia che non sapevamo di possedere. Lo fanno all’improvviso, senza chiederti il permesso. Sono immagini, fotografie virate al seppia, che mi rammentano con quale obbedienza e ossequio ci relazionavamo all’istituzione scuola. Non che non si combinassero marachelle, scherzi più o meno sgradevoli, agiti e subiti, ma il luogo fisico della scuola così come la figura dell’insegnante conservava una sua sacralità. Il maestro o la mestra erano delle autentiche autorità, raramente potevano essere contraddetti, e avevano comunemente ragione. La dinamica sociale che vigeva all’interno della famiglia si esplicitava nel rispetto incondizionato, un dogma, alla figura dell’insegnante. Si produceva un’automatica infinita riverenza nei confronti di chi era responsabile della prima istruzione di ognuno di noi. Il Maestro era chi faceva le importanti veci del padre e della madre. Chi ti preparava alla vita. Chi istillava in te le curiosità necessarie per spiegarti con il mondo, per scoprirlo, scomporlo e ricomporlo. Non tanto erano importanti i contenuti specifici, il livello dell’apprendimento che doveva essere comunque sufficiente, ma la modalità con la quale ci si disponeva all’ascolto, all’attenzione, alla scoperta della vita e di un embrione di etica di riferimento. Non era fondamentale l’esercizio mnemonico, piuttosto quello critico. Insomma il Maestro era davvero chi ti rilasciava il primo “passaporto” per il mondo, che vedeva in te le potenzialità e i limiti puntando tutto sull’enfatizzare le prime e dissipare i secondi. Di più, li annichiliva per galvanizzarti, riempirti di energia e considerazione. Come comprendesse già appieno e prima di chiunque altro, che la vita ci avrebbe stritolati, tritati a dovere, percossi, ridotti esangui. Siccome ci avrebbero già pensato gli eventi a condizionare il nostro cammino, era fondamentale, almeno, il periodo trascorso con lui in classe. La classe trasmigrava da luogo fisico a luogo dell’anima e si procedeva con una metempsicosi concettuale. Da luogo fisico a involucro creativo, a crisalide gigantesca, a bolla di vetro infrangibile. E noi, piccoli esseri inermi, lì dentro a pendere dai ragionamenti impartiti, dagli insegnamenti concitati, dagli esempi e dai ricordi riportati dall’insegnate. Vulnerabili lo eravamo, certo, ma anche fomentati al dovere, alla determinazione, alla fiducia nelle possibilità del desiderio. Con il desiderio, assoluto e pervicace, insistente, eravamo certi che saremmo potuti arrivare ovunque, comunque a un buon traguardo. Per questo il docente era vicino alla sacralità, a prescindere. I padri e le madri non ne mettevano in discussione, mai, il verbo e il ruolo. Oggi, al contrario, è sorprendente e troppo ricorrente l’imbattersi in alunni fomentati da genitori arrabbiati, iracondi e insoddisfatti, che al minimo capriccio o segnale di sofferenza o fastidio comunicato dal proprio figlio, sono pronti alla scomunica dell’insegnate. Che dire? E’ cambiata la famiglia, i rapporti che la costituiscono e la tolleranza all’impegno come al sacrificio, anche minimo. Questo produce inutili ansie nei genitori che vedono i loro figli completamente differenti da come potevano essere loro, piccoli ma già adulti, senza velleità di capriccio. La categoria degli insegnanti nel nostro Paese non è mai stata considerata abbastanza dalla Politica, dalle Istituzioni in genere, con le ripercussioni immaginabili. Nostalgia delle correzioni, del “rosso” come del “blu”, di regole minime e universalmente condivise e accettate.
Grazie della riflessione, David, molto stimolante.
Nella mia esperienza di persona adulta (almeno per età anagrafica), ho avuto modo di riflettere spesso anch’io sul ruolo educativo dei nostri passati “maestri” di vita in famiglia, a scuola, nel lavoro e ho osservato che lo stile educativo di un tempo, basato soprattutto sul rispetto, è senz’altro stato più utile rispetto a quello attuale.
Il motivo mi sembra semplice: quella modalità educativa ci permetteva di disporci all’ascolto e all’attenzione in modo utile proprio a noi stessi perché, anche quando istintivamente avremmo voluto ribellarci, avevamo l’opportunità (spesso imposta proprio dall’educazione) di prenderci un tempo per comprendere prima di reagire.
Oggi a domanda/provocazione sempre più c’è reattività senza il tempo necessario per stare con la domanda/provocazione e cercare di comprenderne almeno una piccola parte di senso, rispondendo poi in modo congruo.
C’è senz’altro alla base una responsabilità educativa dei “maestri” di oggi , ma aggravata dalla mancanza di umiltà e di consapevolezza che permetterebbe di riconoscere chi siamo e cosa vogliamo ottenere dall’evento (anche non gradito) che la vita di giorno in giorno ci propone.
Cara Silvana, grazie per la tua ulteriore riflessione che mi dà lo spunto, oggi, per riflettere su di una considerazione ancora più generale.
Al di là della scuola, quella vecchia e quella nuova, di come sono cambiate le famiglie, i tessuti sociali, credo che alla base della perdità di autorevolezza da parte del corpo insegnante non ci sia solo la triste realtà per cui è facile schernirsi di un lavoratore che propone modelli culturali/esistenziali non guadagnando più di mille e duecento euro, nel migliore dei casi. Il problema è che i maestri sono consapevoli della loro impotenza e della contraddizione di cui sono forieri: vorrebbero insegnare contenuti, valori, un’etica minima, sollecitare a sognare, desiderare di cambiare il mondo, migliorare le vite dei loro allievi, ma per primi rappresentano con il proprio status sociale una categoria disprezzata e, comunque, mai sufficientemente rispettata. Perché sono fuori dai valori dominanti del consueto apparire, dove rilucono solo i soldi, un consistente stato patrimoniale e sociale raggiunto, facilità esistenziale, l’essere “giovani” e “giovanilisti”, possibilmente belli e/o comunque in grado di ditricarsi tra nuovi gerghi e mode, sapienti interpreti della contemporaneità distorta. Tutto questo è difficile, troppo il divario tra la categoria degli insegnanti ed il resto del mondo.
Ma, d’altrande, lo stesso modello potremmo applicarlo alla classe politica, trasversalmente. Come si può pretendere di essere credibili, di perseverare nel diramare messaggi e comunicati stampa che inneggiano alla determinazione e alla meritocrazia, alla necessità di rottamare vecchie classi dirigenti per creare occupazione e lasciare spazio ai giovani, se una famiglia su quattro, rapporto Caitas di oggi, versa in stato di povertà?! Voglio dire che la speculazione, la riflessione ponderata, il ragionamento articolato attorno al tavolo, il consiglio utile e distaccato fa sì la differenza, ma è prerogativa per “ricchi” o per chi, comunque, non è sfiorato se non nella coscienza dai problemi reali. Chi, e non è per fare della facile demagogia e sciorinare il rosario del populismo, ha difficoltà ad arrivare alal fine della giornata, chi ha smesso di sognare perché tanto i sogni non s’avverano, chi vive sui social perché non costa niente ed è un po’ come prendere distanza e rifuggiarsi in un altro mondo, non può permettersi un’analisi attenta e scrupolosa di qunato gli capita. Perché gli capita davvero poco, quasi ninete, se non la frustrazione di sogni disattesi e speranze annichilite. Convengo con te: nella scuola, come nella vita, sia che ci accadano avvenimenti positivi ma, soprattutto, negativi, dovremmo sempre prenderci un po’ di tempo di riflessione, mettere bene a fuoco la situazione, dunque agire di conseguenza. Senza delegare soluzioni a genitori inferociti o farlo, noi, per i nostri figli, nipoti, le generazioni più giovani. Grazie