Sdraiato. Abulico. In un’atarassia coatta e perenne. Un po’ come i personaggi di un film visto di recente, “Piuma”, che fotografa uno scorcio di vita romana sulla Tuscolana. Efficace. Sono anni che si sciorinano percentuali di disoccupazione giovanile, grave; di uomini e donne che hanno smesso di formarsi e di cercare lavoro; di laureati che migrano; di adulti ancora giovani che perdono, improvvisamente, il posto di lavoro; di occupati ma sottoutilizzati rispetto alle proprie capacità e percorso formativo. Nel film il giovane protagonista, diciottenne, argomenta con la madre di suo figlio che non è colpa sua se ha ereditato un conflitto che da “sociale”, quello vissuto dai propri genitori, è cambiato in “generazionale”. A sottolineare la sperequazione tra “genitori” e “figli”, gli anni ’70 e gli attuali. In realtà, a ben vedere, e riflettendo ad alta voce, assistiamo nel nostro come in altri Paesi alla compressione sociale e al generale impoverimento. Non esistono più le classi sociali, esiste piuttosto un eterogeneo enorme proletariato, che non si riproduce più. Neanche la ricchezza della prole. Un’enormità magmatica, indistinta, di gente che attraversa differenti generazioni fino al cinquantesimo anno d’età, povera o impoverita, che vive di stenti, che sopravvive ai propri ricordi, ai piani e le ambizioni appena sfiorati e già annichiliti e logorati. Con o senza il tentativo di realizzarli. Un’enormità indistinta che non può permettersi il privilegio di alcuna visione, ambizione, interesse peculiare e costoso perché troppo impegnata a finire la giornata. Il conflitto non è neanche più “generazionale”, ma soltanto economico. Tutto va rapportato alla mancanza di lavoro, allo sfilacciamento e derisione di qualsiasi qualità e capacità, ormai ridondanti, che non servono più, non in e con questo sistema “malato”. Eccezione è fatta, sempre e solo, per quel 10% della popolazione mondiale che detiene l’intera ricchezza terracquea. Che sarà anche meno del 10%, già tante volte stigmatizzato. Nuotiamo e annaspiamo tra gli effetti, nefasti, della globalizzazione e della finanza. Diventa offensivo e semplicistico, per non definirlo superficiale, il monito e giudizio perentorio quanto senile di chi asserisce che i “giovani d’oggi sono tutti sdraiati”. Ma rispetto a cosa? Quale passione dovrebbe provare e percepire un individuo che ha studiato, si è formato, ha già lavorato e cumulato esperienza lavorativa per essere poi congelato, atrofizzato, arrugginito e parcheggiato allo stesso identico punto di sempre: il suo inizio che combacia con la sua fine o maturità. Non è forse questa la totale miopia, l’assenza di visione e di prospettiva, della volontà di formare e investire nella formazione e implementazione delle ricchezze e peculiarità già esistenti? E’ vero, c’è stato il “Job Act” che ha fatto chiarezza, ha introdotto un po’ più di legalità, ha migliorato le percentuali degli occupati con lavoro a tempo determinato e non indeterminato, ha eliminato il profluvio d’inutili e discriminanti forme contrattuali, sempre penalizzanti. Può bastare? Come un mantra, documentandoci, ci ripetono e ripetiamo a noi stessi, per addomesticarci e sedarci, che è necessario ragionare in prospettiva, quella dei piccoli passi, possibili e plausibili. Perché sono meglio di niente. Mi chiedo, però, quando si rimproverano giovani e meno giovani, fino ai quarantenni e cinquantenni di scarsa passione e proattività, quanto ci si rende conto del contesto socio – economico, poi politico, nel quale viviamo. Con l’impoverimento generalizzato, i disoccupati migrano o vivono di espedienti, ancora a casa dei propri genitori, non si permettono il privilegio di procreare e costruirsi una famiglia propria, un nuovo nucleo affettivo. Chi ha avuto la fortuna d’ottenere un’ultima assunzione, prima della grande crisi che ha avuto un inizio e mai una fine, pur avendo maturato anni di lavoro, esperienze e capacità, un folto curriculum si ritrova a compiere funzioni che sono diverse e non pertinenti alle proprie competenze, alla propria formazione, e da ultimo privilegiato convive con una frustrazione silente e feroce: un ossimoro tragico. Nel frattempo si passa dal congelamento all’invecchiamento, il corruccio e la disperazione si fanno rughe, malattia, deperimento, la naturale saggia vecchiaia e intere generazioni sono, di fatto, bruciate. Il rapporto con le Istituzioni, volitive e caratterizzate dai migliori propositi, s’inaridisce, si alimenta ulteriore distanza e incomprensione perché le soluzioni non si vedono e non si toccano. Nella peggiore delle ipotesi, che si sta diffondendo come connotazione e cifra dei nostri tempi, la tendenza più comune e sragionata, primitiva e istintiva è quella di raccogliersi raggomitolandosi nel proprio quotidiano, cercando di conservare un poco di serenità regredendo, erigendo muri, circoscrivendo territori e culture, abitudini, radici, schermandosi il più possibile in un isolamento coatto, rifiutandosi di comprendere. Eccoli i localismi e i protezionismi galoppanti, le facili urla sguaiate, le prove di forza, l’esibizione ipertrofica della propria intolleranza e verità. Si fanno breccia tra persone insospettabili, lavorano silenti tra le pieghe di una cultura progressista e idealista, che si sente svuotata di riferimenti e diritti, mai contrattabili e senza costo.
E invece eccoli lì, aggrovigliati e incattiviti, a litigarsi anche i diritti, strattonati e strumentalizzati, piegati al bieco consenso. Neanche il dibattito sullo ius soli trova pace, così la legge sul fine vita, sul testamento biologico. No, non siamo sdraiati né addormentati, né abbiamo scelto l’ottundimento, l’atarassia, lo sfrenato edonismo come rifugio. Non abbiamo perso la capacità critica, semplicemente non vediamo gli strumenti e non è efficace né liberatorio né funzionale riempiere le piazze con urla sguaiate e fomentare altra violenza. Qualcosa bisognerà fare, certo: molto volontariato, dedicarsi a molto approfondimento, curiosare, parlare con la gente che divide, non smettere mai di confrontarsi, di affacciarsi e vivere nel mondo, di interrogarsi e, soprattutto, mai accontentarsi. Perché non è giusto. Però, davvero, come possiamo parlare di generazioni sdraiate? La rete, in questo, se dà facile accesso e possibilità a chiunque d’espressione, allo stesso tempo omologa e stempera ogni giudizio, lo rivede al ribasso rispetto a freni inibitori, attendibilità e serietà dei contenuti veicolati. Se la piazza reale si è fatta virtuale, si è trasformata nelle più diverse piattaforme digitali, non è il patos che manca ed è improprio parlare di disimpegno collettivo. E’ infatti tutto subito, ora e ovunque: questi i pregi di una manifestazione moderna; ma la percezione intima del moto di protesta, l’elaborazione psicologica di quanto protestiamo e auspichiamo di trasformare non può inverarsi e solidificarsi in una trama tecnologica, in una piattaforma dove indifferentemente si affacciano tutti berciando nello stesso cortile. Insomma, con chi vogliamo prendercela? Possiamo solo continuare a comportarci nel migliore dei modi, custodendo principi e valori che ci siamo formati e abbiamo, in parte, ereditato. Questi sopravvivono sempre, in contesti storici diversi, ma sono sempre validi, ci rendono persone etiche e scrupolose. Ma chiederci e chiedersi che fine ha fatto il pathos, la passione per una battaglia, ce ne vuole. Le armi sono spuntate, assenti, e il nemico troppo potente e ingombrante per essere messo bene a fuoco. Motore di questo spietato groviglio d’inquietudine e incomprensione, d’incapacità di reagire diversamente, di ritrovare un’antica e più riconoscibile determinazione è l’assenza del lavoro. Per questo, dopo tanto congetturare e peregrinare, da più parti e a più livelli, europei e istituzionali, si parla più comunemente di reddito di cittadinanza e di tassazione d’imposta progressiva delle classi sociali, si combattono il protezionismo e l’isolamento identitario e territoriale. Se non si riparte dal lavoro non è possibile avere reddito e non si esiste, non si determina né condiziona alcun processo. Il pathos c’è come l’urgenza, mancano soluzioni e strumenti certi.

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